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domenica 15 maggio 2011

20 maggio 2011 il sogno di Diego si avvera



Tutti gli amici sono invitati, senza eccezzione alcuna, sabato 20 maggio, ore 9, chiesa della parrocchia di Bauleni, Lusaka, Zambia. Diego diventerà "Fratel Diego", missionario comboniano.
Il suo sogno diventa realtà dopo più di un anno e mezzo di noviziato.
Chi non potrà essere presente fisicamente ci sia con il proprio cuore e il proprio affetto.

martedì 22 marzo 2011

Tra musica, dreadlocks e sogni


Tra musica, dreadlocks e sogni

Il compound di Bauleni e’ pieno di problemi, e’ vero, ma e’ anche un “laboratorio” di vita, dove si esperimentano ed esprimono una moltitudine di relazioni, di energie, emozioni, un intreccio di storie e personaggi, talenti, musica, arte, sogni e creativita’ che rendono quel groviglio di umanita’ un posto unico, dove si respira tutta la freschezza della vita. Ci si sente vivi nonostante tutto!
C’e’ Mr. Dakka per esempio, un uomo sottile e distinto sulla sessantina, con capelli corti e brizzolati e degli occhiali ovali dorati che gli danno un’aria da docente universitario. E’ un orologiaio, almeno cosi’ lui dice. Ha un tavolino quadrato sotto il portico di un negozietto all’interno del mercato, sul quale dormono ammucchiati ricordi di orologi. Ne ho portati alcuni a cui ha cambiato la batteria e funzionano. Mi rendo conto che l’operazione non e’ delle piu’ difficili, ma gli viene bene. Il mio, che non ha problemi di batteria, l’ho portato almeno quattordici volte, tanto che putrebbe andareci anche da solo. Funziona per un giorno o due e poi si stanca e si inchioda. Ogno volta Mr. Dakka mi rassicura: “ ...no no brother Diego, questa volta l’ho messo apposto, vai tranquillo”. Io vado tranquillo, ma poi dopo due giorni, tranquillo torno indietro. E’ ormai diventata una sorta di tradizione per me, un po’come andare a prendere l’aperitivo da noi in Italia alla domenica mattina:
“cosa fai domenica? Ah no, il solito, vado a portare l’orologio a Mr. Dakka”, e’ un modo per socializzare, per stare insieme.
Poi c’e’ Naomi, una bella ragazza di ventitre anni con un talento naturale per il busyness. Ha un baracchino giallo alla stazione degli autobus dove vende ricariche per telefonini. Ce ne saranno una ventina di quelle scatole di compensato colorate e tutte vendono la stessa cosa, eppure da lei c’e’ la fila. Questo non per la sua bellezza, perche’ ci sono molte donne che si servono da lei. E’ il modo accogliente e socievole con cui si rivolge alle persone. Sembra dirti tra le righe: “prima di tutto sei una persona, poi se compri sei anche un cliente”, completamente il contrario della logica consuminta che ti vede solo come una risorsa da sfruttare e se avanza tempo, forse sei anche una persona. Si possono spendere delle ore da lei, senza comprare nulla. Da lei si socializza, tra gli schiamazzi del mercaro, il fumo dei minibus e i clacson che suonano incessantemente.
Poi c’e’ Mr.T, cosi’ si fa chiamare. E’ un uomo sulla cinquantina, alto, vestito sempre di nero con un giobbotto pesante di finta pelle nera rovinatissima che indossa anche quando ci sono cinquanta gradi. Il suo tasso alcolico e’ costantemente medio-alto, con picchi impressionanti veso le quattro del pomeriggio. Quando si presenta dice: “ piacere, io sono Mr.T, ovvero Mr. Toilet perche’ sono ufficialmente in carico, nonche’ responsabile della pulizia dei bagni del bar vicino alla stazione”, che poi pulizia e’ una parola grossa visto che tutti i clienti si lamentano per le condizioni preoccupanti in cui versano i bagni.... da colera tanto per intenderci. Penso lo paghino a birre e sigarette e non so se abbia un vero e proprio stipendio, ma e’ parte dell’ambiente del bar, se non c’e’ manca e la gente chiede: “ ei dov’e’ Mr.T oggi?”
Sempre nel mercato c’e’ Chisomo (che si pronuncia Cisomo), una ragazza di diciannove anni che ha appena terminato la Secondary School e non vede l’ora di poter proseguire gli studi ed andare all’universita’. Lavora nel negozietto del padre dove vende materiale elettrico, poco lontano dal tavolino quadrato di Mr. Dakka, il fenomeno degli orologi. Mi piace fermermi da lei ed ascoltare le sue idee, farmi interrogare dalle sue domande e parlare del suo piu’ grande sogno: quello di diventare medico. Tra un cliente e uno scroscio di pioggia, e’ impegnata a sfogliare un vecchio volume di enciclopedia medica senza copertina, dalle pagine ingiallite, impregnate di “Bauleni” e spaccato in due come una mela, che lei tiene come un tesoro da maneggiare con delicatezza e rispetto, quasi tenesse in mano il suo sogno. Lei ci crede veramente e mi dice sempre: “vedrai Diego, un giorno verrai da me a farti curare, saro’ il tuo medico! ...vedrai!”. E’ molto gentile da parte sua anche se suona come una gufata. Ma si, in fondo prima o poi qualcosa mi verra’. Alla fine Chisomo ha ragione e mi riporta alla mia umanita’ e alla realta’ di ogni esistenza di cui la malattia e’ parte.
Moses davanti al suo laboratorio C’e’ anche Moses, un Rastaman di trentanni con dei dreadlocks che raccoglie in due grosse ciocche, una sulla destra e una sulla sinistra della testa e che il piu’ delle volte copre con una grande cuffia di lana del Barcellona, di cui e’ tifosissimo. E’ un falegname e lavora tutto il giorno nella bottega vicino alla guest house proprio nel centro piu’ rumoroso del compound di Bauleni, dove i bar si concentrano cambiando l’odore dell’aria, da quello pesante del diesel della stazione a quello acre del mais fermentato che bevono come birra locale. Le sue specialita’ sono poltrone e divani che costruisce con una certa liberta’ espressiva. Una cosa non puo’ mancare nelle sue opere: devono essere rigorosamente ricoperte di un vellutone soffocante che fa sudare al solo pensiero di sedercisi sopra, anche se sedersi non e’ la parola giusta, perche’ in quelle poltrone ci si sprofonda dentro. Non e’ una sua fissa, in tutte le case si possono trovare poltrone foderate di questo materiale sintetico non proprio estivo ne tantomeno adatto per luoghi polverosi come il compuond nella stagione secca, ma qui e’ un must. Moses non ha studiato molto, ma ha una mente da filosofo. E’ bello ascoltarlo, con quella sua spiritualita’ rastafarian, mentere si arrabatta a tagliate pezzi di legno in una nuvola di segatura che si appoggia sui dreadlocks come neve che si spruzza a presepe finito. Sogna di poter mettersi in proprio anche se ci vogliono molti soldi. Lavora duro, come tutti i rastafarian del compound, dalla mattina a sera tarda. Ha tre bambini, l’ultimo ha sette mesi, e una moglie giovane che non ha nulla a che vedere con i rasta. Moses mi dice sempre: “sai bro, io nella vita voglio combinare qualcosa di bello, voglio realizzarmi, non grandi cose, ma avere un negozietto mio, mandare i miei figli a scuola e vivere in una casa decente. Non sono fatto per starmene in un bar tutto il giorno a bere e buttare via la vita... e’ troppo? No bro, Jah (JAH e’ il nome che i Rasta danno a Dio) mi aiutera’ e ce la faro’! Sono tanti ancora i personaggi e le storie di Bauleni che potrei raccontare, tanto che non basterebbero tre vite per abbozzarle tutte. Racconti di vita vera tra degrado, problemi e ingiustizie ma ancora una volta mi rifaccio alle parole di De Andre’: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono fiori”.
...e io mi siedo incantato a meditare il miracolo della vita che fiorisce in Bauleni, tra musica, dreadlocks e sogni.

Vi porto al cuore

Diego (Gigo)

giovedì 12 agosto 2010

Silvia ... pensieri di Gigo

(una rarissima foto di Gigo durante la sua permanenza in Uganda mentre si occupava di ex bambini soldato ... rubata do intenet e che lui probabilmente ignora)

La nostra è una associazione laica, ma ... sulla strada conoscemmo Gigo un frate comboniano, con lui nacque una fraterna amicizia e una leale collaborazione, facemmo varie cose con lui, tra cui l'operazione "Silvia", oggi Gigo è in Africa, stà facendo il noviziato per diventare missionario comboniano, ogni tanto scrive, e questo ricordo di Silvia, questa interpretazione di Silvia, a noi laici, pone domande sull'essenza del suo Dio.

Strano, lo steso giorno che Silvia salì sull'aereo per tornare a casa, ormai libera, Gigo salì su un altro aereo per andare in Africa per afrontare le durissime prove imposte dai comboniani ai suoi missionari ... strana combinazione.


NON HO MAI PARLATO DI SILVIA
...e il suo Magnificat

Non ho mai avuto il tempo materiale di rielaborare, di fermarmi e festeggiare, non solo con le emozioni, ma con tutto ciò che sono e con tutto ciò in cui credo. Non ho cantato la liberazione di Silvia. Non ho potuto danzare la vita, celebrare la resurrezione di una donna, la Pasqua di un essere umano per via della mia partenza ma ora, a distanza di un anno lo faccio. Danzo a modo mio, con le parole. Silvia, non eri tra le ragazze con cui avevo più confidenza. Non mi fermavo mai da te perché ti trovavi in un punto pericoloso, troppe macchine e poco spazio per fermarmi. Forse, quel posto lo avevi scelto volutamente o forse è stato solo un dono della strada che non ti voleva schiava per molto. Quella notte non mi ero fermato per te, forse per quel tuo carattere schivo, timido e poco avvezzo alla notte. Non eri molto socievole e sicuramente non attiravi l’attenzione di uomini poco attenti alla tua dignità. Mi ricordo ancora la frase che mi hai detto, con quegli occhi che a stento trattenevano le lacrime: “ Pastor, I’m tired to sing against God!” , sono stanca di cantare contro Dio! La tua voce è fatta per cantare al tuo Dio e la tua amima ad esserele amica e a gioire ed esultare della sua presenza. È proprio qui che hai intonato il tuo Magnificat. Io non ti conoscevo ma tu sapevi chi ero, mi ero già fermato, ma sinceramente non mi ricordavo quando. “Voglio tornare a casa, aiutami ad andare a casa”. Era la prima volta che vedevo tanta voglia di riprendere a vivere, di ricolorare la libertà con tanto coraggio e determinazione.
Sei salita in macchia e mi hai raccontato al tua storia simile a mille altre storie, a tante vite storte tutte uguali e diverse allo stesso tempo come fiamme di candele davanti ad una statua di un santo. Quando ti abitui al brutto, non ti ricordi più che volto ha la meraviglia e confondi la vergogna con il successo, la morte con la vita. Questo è quello che capita a centinaia di tue sorelle Silvia, che si abituano alla schiavitù mentendo alla libertà che gli spetta e le aspetta, imbrattandosi così nei liquami putridi dei loro stessi trafficanti.
Per te non è stato cosi, tu non hai creduto alla morte addobbata a festa, non hai ceduto alle minacce dei tuoi aguzzini, non hai creduto alle loro bugie vestite di sogno, semplicemente perché hai avuto il coraggio di sognare davvero. Ti volevano far credere che eri finita sulla strada per volere di un dio spietato che aveva pensato per te questo destino. Ti hanno fatto promettere al loro dio di petrolio che non lo avresti mai tradido, non avresti mai disobbedito alla sua inesauribile sete della tua vergogna. Ti hanno imposto il male profumandolo di Dio, e questo purtoppo funziona, ma non con te, tu sentivi che cose grandi erano state pensate per te da Colui che non ti ha mai voluto schiava. Con te il loro sadico gioicattolo si è rotto, sono stati dispersi i loro progetti di morte dei superbi, degli arroganti, della mafia nigeriena e di tutte le mafie e il loro potere si è rivelato nella sua essenza....un nulla. Li hai vinti Silvia! I potenti sono stati rovesciati dai troni, e gli umili sono tornati a rendere la terra un posto umano. Insieme, quel sabato pomeriggio, siamo scappati e tutto ha ripreso il suo colore originario, primordiale. Il brutto ha lasciato il posto alla meraviglia, la schiavitù è svanita con il respiro della libertà, la morte ha perso la sua partita con la vita e Dio è tornato ad esser ciò che è sempre stato...il Dio della vita! La tua fame di vivere è stata ricolmata dei cibi e dei frutti della tua terra e nelle mani della tua madam ci sono 60.000 euro in meno, la ricca è stata rimandata a mani vuote. Ti sei dovuta nascondere per due settimane prima di poter tornare nella tua Africa, tra la tua gente. Ti sei lasciata nascondere perché ti sei fidata, hai aiutato il tuo Dio a soccorrerti e non hai mai perso la speranza, hai avuto l’audacia di credere nell’antica promessa di un Dio che ha voluto essere tuo alleato ...alleato per sempre. Sapevi di rischiare, ti stavano cercando per riportari nel sepoclo in cui vivevi da morta. Amici coraggiosi ti hanno aperto le porte di casa, anch’essi rischiando, ma si sa chi non rischia vive a metà e in quelle case la vita era piena, come lo è ora anche la tua. Ora sei libera. Ti sei liberata! Mi ricordo che quel venerdì notte in cui abbiamo deciso che il giono dopo, sabato, saresti “scappata”, tornando a casa ho dato l’ultimo sguardo al posto in cui eri obbligata a morire ogni notte. Il tuo fuoco bruciava ancora, ma senza di te. Era un dolce vuoto, una bellissima assenza, e ho pensato che non ti avrei più rivista e quel posto non ti avrebbe mai più avuta. Mai più! Era una sensazione strana, era notte e c’era silenzio, ma i colori erano già quelli dell’alba, l’ora in cui l’anima ringrazia e lo spirito esulta.

Diego (Gigo)

lunedì 22 marzo 2010

Buona Pasqua da Gigo


lettera dallo Zambia di Diego Cassinelli (Gigo)

(novizio Comboniano e amico caro di CattiviRagazzi)


Avrei tante cose da condividere, tante storie da raccontare, tanti volti da dipingere, ma preferisco sostare per un attimo e dare spazio ad una riflessione che riguarda il tempo che stiamo vivendo, un tempo “altro”: la quaresima. Cosa vuol dire vivere la quaresima qui nella township di Bauleni?

È proprio vero che le cose prendono un significato diverso a seconda della latitudine in cui ci si trova a vivere.

È la quarta settimana di quaresima e dopo aver iniziato con un passo europeo mi sto accorgendo che la musica qui è un’altra e sto ballando da solo, perché il ritmo è diverso. Forse, come per il senso dell’avvento, anche qui sono chiamato ad andare all’essenziale. Che cosa succede veramente in questi quaranta giorni di deserto? Come mi devo comportare, come sono chiamato a viverli? Ciò che ha un senso in Italia, qui forse ne ha un po’ meno e altre dinamiche e contenuti prendono valore e priorità. Certo non ci si può fermare ai fioretti, che il più delle volte vanno a toccare solo il nostro superfluo. Per moltissime persone qui il superfluo non c’è mai e ogni tanto, diciamo raramente, hanno il necessario. Come si fa a parlare di digiuno con gente che digiuna tutto l’anno? Moltissimi uomini e donne sieropositivi, si autodistruggono con gli anti retro virali, (terapia per chi ha l’Aids) proprio perché non hanno una corretta alimentazione. Siamo alla periferia della capitale, e i supermercati sono pieni di tutto, il cibo non manca, ma i prezzi sono altissimi e la gente delle township tira a campare come può. Se non ho la possibilità di saltare il superfluo perché non ho nemmeno il necessario, cosa differenzia questo tempo da un altro? Ma che cosa è la quaresima? Cominciamo con un numero; quaranta. Si dice che Gesù sia stato 40 giorni nel deserto, non prendendo né acqua né cibo. Il numero è esagerato, nessun uomo può sopravvivere tutto quel tempo senza mangiare e bere. Va bene che era Dio ma, se ha scelto di essere uomo credo che si sia preso questo impegno fino alla fine, compreso le fatiche di un corpo da uomo. Quaranta è un numero simbolico, e non un lasso di tempo reale e ricorda i quaranta anni del popolo d’Israele nel deserto, che dalla condizione di schiavitù, andava incontro alla terra promessa, alla libertà. Un popolo intero si era messo in cammino, uomini, donne bambini, anziani tra mille difficoltà, tra momenti di sconforto, di tradimenti, di fame e di pianti. Il fatto è che, a quel tempo, la prospettiva di vita non era lunghissima; solo di 35, 36 anni. Questo vuol dire che nessuno di quelli che sono partiti ha visto ed è entrato nella terra promessa. Sono morti tutti prima di raggiungere il loro sogno. Trentasei anni, di vita da vivere, quaranta anni di cammino nel deserto! Il calcolo non lascia dubbi. Il popolo che ha trovato liberazione non è il popolo che è partito dall’Egitto. Non è più lo stesso popolo, è un popolo nuovo, sono i figli e nipoti nati durante il viaggio verso la libertà. Dopo tutti questi anni si ha una creatura nuova, l’uomo nuovo chiamato a costruire e ad abitare una terra nuova. Alla luce di questa interpretazione si può dire che questi quaranta giorni di quaresima sono il tempo simbolico per prenderci in mano ancora una volta, per tentare di riavvicinarsi a noi stessi, al sogno di Dio, e tentare di costruire percorsi che siano veramente capaci di “rigenerarci”, ovvero, di nascere ancora, perché alla fine di questo cammino, possiamo sentirci creatura nuova, donne e uomini nuovi. Ciò che inizia il cammino è chiamato a lasciar spazio a una nuova vita, ad un nuovo essere. Guardando la gente di Bauleni, il loro stile di vita, la loro difficile quotidianità, penso che questo momento si può vivere anche in modo diverso, quello che conta è tentare di attraversare il deserto e il silenzio con la speranza di uscirne nuovi. La vera rinuncia è quella di sottrarre tempo al solito “tran tran” per fare respirare la mente. Pensare, pregare e meditare, allontanarsi dal mondo vuoto, o almeno tentare di farlo. Davvero; diamoci del tempo, regaliamoci aria e spazio per far vivere semplicemente ciò che siamo. Fare digiuno da tutte le idée, gli stereotipi, i luoghi comuni e i pensieri che ci mettono nel piatto come cibo tiepido e precotto. Essere critici davanti a fatti e avvenimenti, e rinunciare a seguire la tendenza dominante, quella comune, quella più facile. Questa è la rinuncia, questo è il digiuno, questo è lo sforzo. Solamente usando criticamente la nostra mente potremmo diventare creatura nuova e dopo i quaranta giorni attende la resurrezione dell’uomo nuovo. Anche il Falegname di Nazareth è uscito dai suoi “quaranta giorni” di deserto pronto a dare la vita per un mondo nuovo di giustizia e pace … è uscito nuovo, è uscito Dio. Prendiamoci del tempo per pensare, basta aprire il Vangelo, leggere, meditare e gustare la sana rivoluzione, quella di una notizia nuova,

Ma attenzione, anche qui, al pericolo di cibi precotti, il rischio di accontentarsi del già sentito è sempre dietro l’angolo.

Per questa Pasqua auguriamoci di avere il coraggio di credere alle cose nuove … di essere creatura, attenta, pensante, critica, viva … creatura nuova.

Buona Pasqua

sabato 20 febbraio 2010

Lettera di Diego dallo Zambia


… tutto in un sabato, tutto in una domenica

Aids! “I’m positive”, sono positivo, sono positiva. Non è raro sentire questa frase entrando nelle case della gente della township di Bauleni. Le famiglie sono falciate da questo male ancora incurabile, ma la causa della morte spesso viene coperta con altre malattie oppure con cause misteriose e magiche. Il virus colpisce tutti, senza discriminazioni, che tu sia europeo o africano non importa, ma se in Europa si riesce a vivere dignitosamente, qui al contrario, si vive male e si muore e peggio! In Bauleni il virus ha un volto ben definito, una fisionomia marcata, delle caratteristiche fisiche che lasciano poco spazio a diagnosi dubbiose. Misonzi, per esempio, è una ragazza di 25 anni circa, con un sorriso disarmante. Un uomo è passato nella sua vita e le ha lasciato un bimbo con cui ha condiviso il virus. Questa donna però è ancora sola perché il bambino è stato portato via dall’Aids. Misonzi è sola col suo male che la mangia poco a poco, giorno dopo giorno e con il suo dolore; il ricordo di un bimbo che ad ogni sorgere del sole tenta di annegare nell’alcol senza mai riuscirci.
C’era anche Peter, un uomo sui 40 anni, talmente magro che la pelle ormai grigia sembrava essere dipinta sulle ossa. Abbiamo potuto condividere con lui poco tempo, appena due visite, alla terza abbiamo trovato solo il suo ricordo e le lacrime della sua famiglia. Oppure Brenda, una donna che vive sola con tre figli che non riesce a mantenere, il marito l’ha lasciata qualche anno fa. Il suo sguardo è triste e tenero allo stesso tempo e i segni della malattia si fanno evidenti col passare del tempo.
A volte è talmente stanca e debole che per intere settimane sta sdraiata sul suo materasso appoggiato sul pavimento. Brenda sa che deve morire, mi immagino solo il pensiero che la sbrana più della sua malattia: cosa faranno le mie tre creature in un futuro non troppo lontano?
Anche il sangue di Mercy e del suo bambino di otto anni porta quella maledetta parola tra i suoi globuli: “positivo!” Vivono in una casa talmente piccola che appena si entra ci si trova obbligatoriamente seduti sul divano senza più potersi muovere. Mercy ha buon gusto, cura i particolari della casa, ci mette amore e quando siamo arrivati, quel sabato, stava lavando il pavimento di cemento levigato, inginocchiata come in preghiera. Per quanto tempo ancora potranno camminare per le strade di Bauleni? Che scadenza avrà la loro speranza?
“Positivo!” e’ una parola che marchia a fuoco il sangue come una sentenza senza possibilità di appello. Il sangue, simbolo della vita, delle unioni indissolubili e delle alleanze, della promessa e della discendenza, diventa veleno, simbolo di paura ed emarginazione e siero che porta la morte. Ed è lo stesso sangue che domenica ho visto uscire dalla bocca e dalla testa di un uomo che altri tre uomini stavano linciando a bastonate calci e pugni. Il sangue scendeva dalla faccia alla terra e si mescolava con l’acqua di una pozzanghera, formando disegni cupi che sapevano di mattanza.
La gente attorno stava a guardare, come si guarda ammazzare un toro in una corrida. La coscienza grida e porta dove il coraggio non porta, e il grido si trasforma in azione. Quando lei pronuncia la sua parola non è possibile ignorarne la voce, e così sono stato spinto ad intervenire. L’avrebbero ammazzato? Non lo so, non so nemmeno il motivo del linciaggio e sinceramente non avrebbe fatto nessuna differenza. L’uomo è vivo, ma è viva anche la violenza che si accende per un nulla e accresce colpo dopo colpo, resa ancora più fredda e tagliente dal sadismo della gente che guarda con un certo godimento non proprio inconscio. La violenza è viva e pulsa sulle tempie e si alimenta di se stessa, del sangue che fa scorrere, che si rende visibile e imbratta l’uomo, la terra, l’acqua ma anche la coscienza. Cose d’Africa? No non e’ questo che intendo, perché queste cose capitano anche a Milano, nello stesso modo, con la stessa violenza e freddezza e nella stessa indifferenza. Ci si può indignare, ed è giusto che sia così, ma non si può condannare un intero continente per un gesto che rispecchia anche la propria cultura, nel mio caso quella italiana. Ora penso agli incontri vissuti lo scorso sabato e domenica, e nel silenzio, il giudizio affrettato lascia spazio alla preghiera, e questa porta alla riflessione, critica si, ma il più possibile ponderata. L’Africa, o meglio, lo Zambia non è questo, o non solo questo, come l’Italia non è solo mafia. Qui c’è del bello che nasce ogni giorno, nonostante tutto. Dio non si è dimenticato di questa terra, anzi, sprona l’uomo a ricordarsene.
Penso al sangue, elemento che ha unito un sabato e una domenica di febbraio bagnato dalle piogge, penso che da elemento di morte e di violenza siamo chiamati a riportarlo all’originale significato di alleanza e vita. Ho deciso di narrare questi eventi, non per mettere in cattiva luce questo popolo, anzi … lo faccio perché racconto storie, incontri che la vita mi da in dono, senza nascondere il brutto e il bello, la paura e la gioia, cercando di condividere a parole ciò che mi va capitando lungo il cammino. Scrivo perché come dice un proverbio indiano; “tutto ciò che non va donato va perduto”.

Diego (Gigo)